Il Mashat: Il Sapore dell'Inverno nella Mia Infanzia, lo è adesso per mia figlia.
Ci sono sapori che non hanno bisogno di grandi ricette scritte. Bastano le mani di una madre, l'odore che si diffonde per casa, e il ricordo di un'infanzia che torna ogni volta che senti quel profumo.
Quando ero piccola, appena arrivava il primo freddo – quel freddo particolare che porta con sé la voglia di cibi caldi e confortanti – mia madre comprava i cavolfiori. Non uno qualsiasi, ma quello perfetto di stagione: bianco, compatto, con le foglie ancora fresche e verdi.
Iniziava sempre allo stesso modo: faceva bollire i cavolfiori in una pentola grande, riempiendo la cucina di quel vapore caratteristico che annunciava l'arrivo del mashat. Io, i miei fratelli ma anche tutto il quartiere Abusneneh lo sapevamo subito: "Oggi si fa il mashat!"
Dopo averli lessati, li tagliava a pezzi non troppo piccoli – dovevano mantenere un po' di consistenza – e poi iniziava il rituale della preparazione. In una ciotola grande mescolava i pezzi di cavolfiore ancora tiepidi con le uova sbattute, la farina, i cipollotti tagliati finemente (quelli che danno quel sapore dolce e delicato), il prezzemolo fresco tritato che profumava di verde e di terra, aglio schiacciato, sale, pepe, e quel pizzico di cumino che rendeva tutto speciale.
Poi aggiungeva un segreto che scoprii solo anni dopo: un poco di bicarbonato. "Per renderlo più leggero e croccante," mi spiegò quando finalmente osai chiederle perché lo faceva.
Ma se le chiedevi: "Mamma, quanto ne metti?" Lei rispondeva con un sorriso: "A sentimento, habibi. Si sente quando è giusto."
Non c'erano dosi precise, mai. Non c'erano bilance, misurini o cucchiaini da cucina. Le sue mani erano la bilancia. I suoi occhi giudicavano la consistenza dell'impasto. Il suo istinto – quello che viene da anni di pratica e di amore – decideva quando era perfetto.
"Un po' di questo, un po' di quello," diceva mentre aggiungeva gli ingredienti. A volte più uova se l'impasto sembrava troppo denso. A volte più farina se era troppo liquido. Assaggiava con il dito, aggiungeva sale, assaggiava di nuovo. "Ecco, ora è pronto."
E sapete cosa? Era sempre buono. Sempre. Non importava se quel giorno aveva messo più cipollotti o meno prezzemolo. Non importava se l'impasto era leggermente più denso o più liquido. Il mashat veniva sempre perfetto, perché era fatto con quel "sentimento" che nessuna ricetta scritta può insegnare.
Oggi anch'io cucino così. Senza misurare, senza pesare. Prendo il cavolfiore, lo lesso, e poi comincio ad aggiungere: uova, farina, le erbette, le spezie. Assaggio, aggiusto, sento quando è giusto. A volte mio marito mi chiede: "Ma quanto ne hai messo?" E io rispondo, sorridendo come faceva mia madre: "A sentimento."
Perché il mashat non è una ricetta da seguire pedissequamente. È un dialogo tra te e gli ingredienti, un'intuizione, una danza che impari guardando tua madre e che poi diventa tua.
Le sue mani lavoravano l'impasto con sicurezza, mescolando tutto fino a ottenere quella consistenza che solo lei riconosceva come giusta. Poi veniva il momento magico, quello che io amavo osservare più di tutti.
Mia madre prendeva il mestolo, lo riempiva generosamente di impasto, e con un gesto artistico – sì, era proprio arte – lo versava nell'olio bollente. Non lo lasciava cadere in modo casuale, no. Con un movimento preciso del polso, faceva scivolare l'impasto formando quella caratteristica forma allargata, con le dita che si estendevano come i raggi del sole. Assomigliava al palmo di una mano aperta, proprio come dice il nome: مشط اليد (mashat al-yad), il palmo della mano.
"Guarda bene," mi diceva. "Devi farlo così, con delicatezza, altrimenti non viene la forma giusta."
Ogni frittella era diversa, come le impronte digitali. Alcune avevano le "dita" più lunghe, altre più corte, ma tutte portavano il segno inconfondibile della mano di mia madre che le aveva create. Il suono dello sfrigolio era musica per le nostre orecchie. Ogni mashat dorava lentamente, assumendo quel colore ambrato perfetto, croccante fuori e morbida dentro.
Mia madre le girava con pazienza, aspettando il momento giusto, quello in cui la superficie diventava color oro e la cucina si riempiva di un profumo irresistibile. Le "dita" sottili dell'impasto diventavano particolarmente croccanti, mentre il centro rimaneva morbido e soffice.
Noi bambini ci aggiravamo intorno alla cucina come piccoli avvoltoi affamati, aspettando il momento in cui avrebbe pronunciato la frase magica: "Pronti, ma aspettate che si raffreddino un po'!"
Ovviamente non aspettavamo mai abbastanza. La prima frittella era sempre quella che bruciava la lingua, ma non importava. Il sapore del mashat caldo, croccante, con quel mix perfetto di cavolfiore dolce, uova soffici, e spezie che pizzicavano leggermente, valeva ogni piccola scottatura.
Lo mangiavamo con le mani – come si dovrebbe mangiare il mashat – rompendo quelle "dita" croccanti e immergendole nello yogurt fresco e leggermente salato che mia madre serviva a parte. Il contrasto tra la croccantezza calda delle frittelle e la freschezza cremosa dello yogurt era perfetto.
A volte mia madre preparava anche una salsa di tahini con limone e aglio, e inzuppavamo il mashat in quella salsa bianca e vellutata. Altre volte lo accompagnavamo semplicemente con del pane fresco e olive.
Ricordo che cercavo sempre di prendere i pezzi con le "dita" più lunghe e croccanti, e litigavo bonariamente con i miei fratelli per accaparrarmeli. Mia madre sorrideva vedendoci mangiare con tanto appetito, il suo premio migliore.
Il mashat non era solo cibo. Era l'annuncio dell'inverno, il calore della casa, le mani di mia madre che lavoravano con amore, quel gesto artistico che trasformava un semplice impasto in una forma che ricordava una mano aperta – forse la sua stessa mano che ci nutriva e ci amava.
Oggi, ogni volta che compro un cavolfiore al mercato, penso a lei. E quando lo preparo, cerco di riprodurre quel gesto delle sue mani, quella pazienza, quella forma perfetta che assomiglia a un palmo aperto. Lo faccio a sentimento, come lei. A volte ci riesco, a volte no. Ma ogni volta che verso l'impasto nell'olio e vedo quella forma allargarsi, è come se mia madre fosse lì accanto a me, che mi guida con un sorriso.
Il mashat è questo: un pezzo di infanzia che si può mangiare, un abbraccio che sa di casa, il primo freddo che si trasforma in calore, e una mano – quella di una madre – che continua a nutrirti anche quando sei lontana. È quella sapienza antica che non si misura in grammi e millilitri, ma in amore, in istinto, in sentimento.
Buon appetito.

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